martedì 22 febbraio 2022

Recensione - "La bambina che non sapeva odiare" di Lidia Maksymowicz con Paolo Rodari

Buongiorno mondo di lettori e appassionati di storia. Oggi Monica ci racconta la sua ultima lettura, la testimonianza di una bambina, oggi adulta, che è stata vittima dei lager e degli esperimenti... Una donna che ancora oggi ha come primo pensiero la sopravvivenza.
Titolo:
La bambina che non sapeva odiare
Autore: Lidia Maksymowicz con Paolo Rodari
Genere: Saggio
Pagine: 208
Editore: Solferino
Data di uscita: 20 gennaio 2022

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«Quando vado da Mengele vengo addormentata, per cui quando esco non ricordo esattamente cosa sia accaduto. Mi sveglio ed è il mio corpo a parlare e a raccontarmi».

Lidia Maksymowicz aveva tre anni quando è entrata assieme a sua madre nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. E per tredici mesi è sopravvissuta in quell'inferno, nella baracca dei bambini: una delle piccole «cavie» degli esperimenti del dottor Josef Mengele. La madre di Lidia, cattolica, fin dai primi giorni aveva aderito alla Resistenza bielorussa: una ragazza, con una figlia di pochi anni, che aveva deciso di entrare in clandestinità e di opporsi alla barbarie nazista. I boschi della Bielorussia sono l'ultima luce che Lidia ricordi, prima del buio di Auschwitz. Da cui esce nel gennaio del 1945, dopo la liberazione, per mano a una donna che non è sua madre: una polacca, senza figli, che decide di adottare una delle «orfanelle» rimaste sole in un campo disseminato di cadaveri. Lidia cresce con lei. Ma non dimentica la sua vera madre. Non smette di credere che sia viva, di cercarla. E in una storia che sa di miracolo la ritroverà. Del campo, Lidia ricorda il silenzio: a denti stretti, impegnata a sopravvivere, senza potersi permettere nemmeno un'emozione. Oggi ha ritrovato la voce e ha deciso di dedicare la vita a gridare: mai più. Perché tutto può ancora succedere di nuovo. 
Inizio questo libro con una sorta di timore. Ho visto l’autrice in televisione e la sua storia mi ha davvero impressionata. So che sarà una lettura importante da un punto di vista emotivo.
Alla prima pagina già mi faccio un appunto:
“Prima che i campi aprissero quale fu l’errore? Dare cittadinanza a parole di una ostilità fuori da ogni logica, ma d’un tratto ritenute legittime. Così è ancora oggi. Torniamo ad ammettere parole che sanno di odio, di divisione, di chiusura. Quando le sento in bocca ai politici, mi manca il fiato. Qui, nella mia Europa, a casa mia, ancora quelle terribili parole. È esattamente adesso, in momenti come questi, che può ridiscendere il buio.”
Riconosco in queste righe il mio stesso pensiero, la mia stessa paura, il mio stesso sgomento di fronte alla rabbia e all’aggressività con cui troppo spesso mi trovo a confrontarmi.
Proseguo nella lettura con una certa difficoltà, inizialmente perché il racconto è fatto in prima persona, e pare strano che una bimba così piccola possa analizzare così lucidamente la brutalità che la circonda. Poi capisco che è la Lidia adulta a raccontare attraverso la voce della Lidia bambina e allora mi lascio catturare dalla storia.
Una storia che vede i lager dal punto di vista dei bambini. Ma soprattutto, un libro che ci mostra i bambini rinchiusi a Birkenau e sottoposti agli esperimenti del dottor Mengele. La loro sofferenza fisica. La loro disumanizzazione.
La madre di Lidia, anche lei prigioniera nel campo, la stimola a ricordare chi è e da dove viene.
“Ricordare, infatti, è una espressione di umanità, ricordare è segno di civiltà, ricordare è condizione per un futuro migliore di pace e fraternità.”
In mezzo a quell’inferno questa madre tenta di preservare l’umanità e la vita della sua bambina così piccola ma che impara presto a non mostrare le sue fragilità a chi ne approfitterebbe per farle ancora più male. Le porta quel poco che riesce a procurarsi, a volte una cipolla ancora sporca di terra, che la bimba mangia quasi con ingordigia tanta è la fame. Per mantenere la sua identità le fa ripetere infinite volte il suo nome, da dove viene, il nome dei suoi famigliari. Ha paura che la sua bimba possa dimenticarsi di lei e, ancora peggio, possa dimenticare di essere una persona e credere davvero di essere solo il numero che ha tatuato sul braccio.
Incredibilmente usciranno vive dal lager ma il destino farà loro prendere due strade diverse e potranno ritrovarsi solo moltissimi anni dopo. Nel frattempo però non si saranno fatte vincere dal dolore e dalla disperazione ma avranno vissuto. E questa è una enorme prova di coraggio, io credo. Ed è l’insegnamento che ho tratto da questo libro: per quanti ostacoli il destino ti metta davanti, per quante volte potrai cadere, devi sempre trovare la forza di rialzarti e di andare avanti. Un passo avanti all’altro. Piangersi addosso non serve a nulla. Anzi. Ti rende più debole agli occhi del tuo nemico. E questo hanno fatto Lidia e sua madre, in maniera incredibilmente coraggiosa. Ed è bellissima la risposta che Lidia si dà sul motivo per cui è giusto continuare a parlare della sua esperienza in quella che è stata la più indicibile delle tragedie del Novecento.

“Per dovere: il dovere della memoria(…) che se esercitata ci permette di mantenere in buona salute la democrazia.”
Oggigiorno esiste ancora il concetto di “dovere”? O si pensa di avere solo “diritti”?
Ad un giornalista che le chiede se odia i tedeschi, le loro divise, le loro cattiverie, per averle rubato l’infanzia risponde:
“..no. Lidia in verità è una bambina che non può odiare perché non può nemmeno amare. Non può provare nulla.” Anche se poi, nel corso della sua vita fuori dal lager sentirà che 
“L’odio è un sentimento che distrugge e basta. Non crea nulla, invece nel mondo c’è bisogno di creare e non di distruggere” e ancora “L’odio distrugge. A me spetta invece amare e testimoniare la luce che, nonostante il buio, ci avvolge e non ci abbandona.”

Ancora oggi lei fatica a permettersi dei sentimenti. Il suo primo pensiero è la sopravvivenza. Deve continuamente ricordarsi di non essere più nel lager e di poter vivere nel modo che ritiene giusto senza più temere per la sua vita ogni momento. Racconta che le capita ancora, quando va al ristorante, di sentire l’istinto di nascondere del cibo nel tovagliolo per quando avrà fame. Anche se oggi non è un problema avere cibo per lei, ma quel bisogno le è rimasto dentro. Ha imparato a controllare quel suo istinto riscoprendo anche la gioia di condividere con gli altri quello che ha. Al campo non poteva. Doveva pensare a sopravvivere. 
È un libro che ricorderò a lungo proprio per il punto di vista diverso su un argomento di cui ho letto tanto. Però mi accorgo che è un libro che mi ha lasciato più la voglia di una silenziosa riflessione che parole da condividere. Forse perché è davvero tosto. 
Ne consiglio assolutamente la lettura, perché conoscere fino in fondo ciò che accadde in quello che viene definito “L’anno zero dell’umanità” è indispensabile per evitare che quei fatti orribili possano ripetersi. Assegno dunque 5 stelle a questa enorme testimonianza.

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