lunedì 17 giugno 2024

Recensione - "Piero fa la Merica" di Paolo Malaguti

Titolo:
Piero fa la Merica
Autore: Paolo Malaguti
Genere: Narrativa storica
Pagine: 208
Editore: Einaudi Editore
Data di uscita: 4 aprile 2023

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Quelli come i Gevori li chiamano «i bisnenti»: hanno due volte niente. Per loro partire, più che una scelta, è un tuffo in un niente diverso, ancora sconosciuto. Anche se dai boschi del Veneto alle foreste del Brasile il viaggio è così lungo. Soprattutto in nave, soprattutto alla fine dell’Ottocento. Attraverso gli occhi di Piero, che ha quindici anni e tante cose in testa, Paolo Malaguti racconta l’epopea e la perdita dell’innocenza degli italiani nelle Americhe: il gesto rapinoso di costruire il mondo tra animali mai visti e piante lussureggianti, dove la lotta con la natura è un corpo a corpo quotidiano. E il futuro una scommessa. Piero dei Gevori ha quindici anni e vive ai margini del bosco del Montello, l’antica riserva di legna della Serenissima. In famiglia sono tantissimi e poverissimi, hanno una casa che sta in piedi per miracolo, mangiano poco e non possiedono nulla. Come se non bastasse, la cattiva sorte si accanisce su di loro. Da qualche tempo, giù al paese, si dice che alla Merica regalino la terra a chi ha voglia di lavorare. Dopo l’ennesima ingiustizia, per i Gevori mettersi in viaggio in cerca di fortuna non è più una scelta, ma l’unica salvezza. Eppure, quando arrivano in Brasile insieme alla marea di italiani in fuga dalla miseria, non trovano il paradiso promesso. Lì in mezzo al nulla bisogna farsi spazio, abbattere gli alberi per costruire tutto da zero: dovranno strappare la terra al “mato”, tra le minacce sconosciute della foresta vergine, lontani da tutto e da tutti, senza alcuna possibilità di tornare alla vita che si sono lasciati alle spalle. Piero aiuta il padre e la sorella a mandare avanti il fondo, tira su case, semina granturco e fagioli: arriva alla sera con le ossa rotte, ma nel frattempo cresce. E crescendo impara due cose: che per morire basta il morso di un serpente, e che il primo amore è più pericoloso di tutte le bestie feroci messe insieme. Nel groviglio del “mato”, oltretutto, sarà lui a scoprire quello che nessuno aveva rivelato ai migranti. La loro terra appartiene ad altri, i nativi che quelle colline le abitano da sempre. Nel suo nuovo romanzo, Paolo Malaguti dà vita a una pagina dimenticata della migrazione italiana. Con la felicità narrativa che ben conosciamo e una lingua che ha i colori del veneto, dell’italiano e del portoghese, ci proietta in un mondo lontano e avventuroso, fatto di fatica e piante esotiche, febbre dell’oro e tradizioni da custodire a un oceano di distanza.
Ho scoperto per caso questo libro e devo dire che si è trattato di un caso fortunato.
Sono Veneta e una delle mie zie è partita da Genova per l’Argentina sperando di trovare fortuna, quindi l’argomento mi è caro. Malaguti ha una scrittura che scorre liscia come l’olio e ha saputo caratterizzare ogni personaggio con maestria. La storia che ci racconta è una storia di grande miseria ben inquadrata nella zona geografica, la provincia di Treviso, e nel periodo storico che è quello a cavallo tra 1800 e 1900.

Il libro è strutturato in capitoli brevi introdotti da frasi tratte da lettere scritte dai migranti ai parenti in patria. Sono frammenti di vita che mettono davvero i brividi. Taluni intercalari dialettali o costruzioni di frasi tipiche della parlata veneta non disturbano la lettura in quanto non sono eccessivi e risultano di facile comprensione.

Conosciamo Piero, adolescente, alle prese con un’attività che svolge malvolentieri solo per riuscire a mettere in tavola qualcosa oltre alla polenta. Una cosa che non vuole insegnare al fratello più giovane che cerca di proteggere.
È un ragazzino di quindici anni Piero, ma sa cosa vuol dire lavorare e comincia a essere sensibile al fascino dall’altro sesso. Malaguti descrive con estrema semplicità le sensazioni di questo ragazzo.
Quello che caratterizza lo scorcio di società protagonista del racconto è che a parlare sono le azioni. Le parole vere e proprie sono poche. D’altronde a saper leggere e scrivere sono davvero in pochi e la stanchezza quando si torna dai campi la sera è troppa per aver voglia di parlare. E le cose vanno di male in peggio.
Nelle osterie iniziano a girare strani personaggi che parlano della possibilità di far fortuna emigrando in Merica. Là, dicono, ti regalano la terra e la gente può trovare la fortuna.
Per la famiglia di Piero partire è l’alternativa ad andar per elemosina e così si ritrovano nella stiva dell’Orion dove l’odore di miseria e l’ondeggiare del piroscafo sono talmente forti da causare in molti il vomito. E puzza si aggiunge a puzza.
Arrivati nel nuovo mondo le cose appaiono già diverse da come era stato loro detto: la terra c’è è vero ma è ricoperta dalla foresta e nella foresta vivono i nativi che, seppur presentati come bestie selvagge sono in realtà esseri umani. I coloni saranno chiamati a compiere atti che mai, nella propria patria, avrebbero nemmeno pensato di poter attuare. Perché...
“La fame è una brutta bestia. Ma la fame di terra, se possibile, è ancora più bastarda, perché nella fame di terra ci nasci e ci muori, e non ti molla un giorno, e non c’è modo di sopirla, perché la terra, Dio bello, la terra è sempre poca, o sempre d’altri, e ogni giorno la terra ce l’hai lì davanti agli occhi, e la sogni, la speri, la preghi, finché la terra stessa, brutta puttana, ti accoglie in quattro assi con una croce sopra”.
E infatti alla colonia Piero vedrà cose e ne succederanno altre che lo porteranno ad allontanarsi dalla famiglia per costruire la propria strada. Non la dimenticherà mai. Solamente avrà bisogno di starne lontano. 

Credo davvero che anche questo aspetto della storia italiana dovrebbe essere meglio conosciuto e quindi consiglio questo libro perché frutto di una ricerca storica seria ben evidenziata dalla bibliografia ma, al contempo, calata in una storia famigliare che sa affascinare e coinvolgere nella lettura.
Assegno cinque stelle e vi auguro buona lettura.


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