venerdì 17 maggio 2024

Recensione - "Il carnefice" di Antonio Iovane

Titolo:
Il carnefice
Autore: Antonio Iovane
Genere: Romanzo storico
Pagine: 444
Editore: Mondadori
Data di uscita: 12 marzo 2024

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C'è un uomo a Bariloche, ai piedi delle Ande, che ogni mattina raggiunge la scuola tedesca dove insegna, fa lezione ai ragazzi e per pranzo torna a casa dalla moglie. Vive lì da quasi cinquant'anni, è perfettamente integrato, rispettato, ha una solida rete di amicizie. Un giorno, fuori dalla porta trova ad attenderlo una troupe televisiva americana. «Signor Priebke?» gli chiede un giornalista. «Lei era nella Gestapo nel '44, giusto? A Roma?» L'uomo rimane impassibile, sembra non capire. Poi annuisce. Come ha fatto Erich Priebke, il capitano della polizia tedesca che il 24 marzo 1944 chiamava i nomi dei 335 uomini da condurre all'interno delle Fosse Ardeatine per essere fucilati, a fuggire in Argentina e vivere indisturbato per mezzo secolo senza che nessuno gli chiedesse ragione dei suoi crimini? Attraverso un monumentale lavoro di ricerca, un'appassionata serie di interviste ai protagonisti della vicenda e materiale del tutto inedito, "Il carnefice" racconta tre storie: quella della cattura del vecchio nazista grazie al lavoro di agenti internazionali, l'estradizione e i processi in un Paese profondamente diviso tra chi chiedeva giustizia e chi invocava clemenza per un uomo ormai anziano; quella della carriera di Priebke a Roma, del suo ruolo di predatore di partigiani e della fuga rocambolesca in Argentina dopo la caduta del Reich; e infine una storia di radici, quelle dell'Italia di oggi, con le sue contraddizioni e i suoi antagonismi mai superati, e di Antonio Iovane, che mentre scriveva, indagava ed entrava nel cuore nero della Storia, si è trovato davanti a una verità perturbante.

La copertina di questo libro, che faccio davvero fatica a definire romanzo, è per me molto inquietante. I simboli, aquila e teschio, sul cappello da militare appoggiato ad un mobile mi suggeriscono pensieri e azioni violenti. C’è poi una frase di Piero Trellini: “Un romanzo impetuoso, impossibile smettere di leggere”. Ed è davvero così.

Mi ha fatto male leggere questa storia che ancora ha la capacità di accendere animate discussioni tra opposte fazioni politiche. L’attentato di via Rasella compiuto dai partigiani viene spesso definito in senso dispregiativo come un atto inutilmente provocatorio. Un atto terroristico. Che, secondo alcuni, ha causato l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma l’uccisione di 335 persone, prese a caso e tra le quali vi erano anche carabinieri oltre che ebrei, fu un atto deliberato e fortemente voluto dai vertici del nazismo. La forza che in quel momento stava occupando l’Italia e contro la quale combattevano i partigiani. Credo che ognuno debba sentirsi responsabile delle sue azioni e non di quelle degli altri. Ma passiamo oltre.

Il modo in cui Iovane racconta l’attentato prima, la selezione delle persone da uccidere per ritorsione, poi, e il modo in cui venne fatto è agghiacciante:

“La concentrazione sull’uccidere è del tutto particolare: nessun’altra la supera in intensità. Ognuno vuol parteciparvi, ognuno colpisce. Per poter vibrare il proprio colpo ciascuno si fa dappresso alla vittima. Se non può colpire, vuole almeno vedere come gli altri colpiscono. Sembra che tutte le braccia siano di una sola creatura. Ma le braccia che “colpiscono” hanno maggior valore e peso. Lo scopo è tutto. La vittima è lo scopo, ma essa è anche il punto di massima concentrazione: essa riunisce in sé le azioni di tutti. Scopo e concentrazione coincidono”.

Alcuni nazisti hanno paura e vorrebbero non sparare ma basta una chiacchierata con Kappler e il “coraggio” riemerge.

Molto intensa anche la descrizione dell’uccisione di Carretta da parte della folla imbufalita. Tra la folla, però, c’è Angelo Salvatore che rifiuta di partecipare al linciaggio. Forse è l’eroe che in ogni libro deve comparire.

Mi è venuto da pensare, per come erano narrati i due episodi che la folla inferocita fosse più cattiva dei nazisti delle Fosse Ardeatine ma non credo siano episodi paragonabili data la motivazione che muoveva i due gruppi. Da una parte l’esplosione di una pentola a pressione che per molto tempo aveva covato paura e rabbia, dall’altra l’obbedienza agli ordini.

La storia diviene poi quella della fuga di questi nazisti per non subire i processi previsti alla fine della guerra. Le complicità che hanno permesso a questi individui di allontanarsi e rifarsi una vita con le loro famiglie lontani dalle loro origini, nella maggior parte dei casi. Anche questa parte è stata per me difficile da digerire. Soprattutto perché il 22 aprile avevo visto il programma 100 minuti su La7 nel quale si parlava proprio di un gerarca nazista che doveva essere processato in Francia ed era fuggito in Italia trovando rifugio in una splendida villa sul lago di Como. La stessa villa che nel 2005 ospitò anche il protagonista di questo libro. L’autore ha scelto di non parlare di questo episodio come di tanti altri e le sue scelte non si discutono, perché il libro è suo. Io non ho potuto fare a meno di pensare, però, se era proprio necessario che godesse anche di quel beneficio dato che mai aveva mostrato, come i suoi colleghi del resto, un minimo di pentimento.

Il libro è scritto molto bene. Le oltre 400 pagine scorrono velocissime. Come ho detto in precedenza è un pugno nello stomaco ma sono contenta di averlo letto e ne consiglio caldamente la lettura.

Assegno 4 stelle piene piene.


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