mercoledì 18 dicembre 2024

Recensione - "Bambino" di Marco Balzano

Titolo:
Bambino
Autore: Marco Balzano
Genere: Storico
Pagine: 224
Editore: Einaudi
Data di uscita: 8 ottobre 2024

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Siamo a Trieste, la guerra è appena finita. Un uomo beve un caffè al bancone del bar. Qualcuno lo chiama, lui si gira ma sente già la canna di una pistola puntata contro la schiena. Tutti lo conoscono come «Bambino»: è stato la camicia nera più spietata della città. «Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata». Una storia veloce quanto un proiettile che attraversa guerre, confini, tradimenti. Come in “Resto qui”, Marco Balzano torna al grande romanzo storico e civile. E lo fa con il suo personaggio più duro, impossibile da dimenticare. Mattia nasce a Trieste nel 1900. La sua infanzia irrequieta, forse, è già un presagio: un fratello che parte per l’America, un amico che presto lo abbandona. Quando scopre che la donna che lo ha cresciuto non è la sua vera madre, dentro di lui qualcosa si spezza e nel petto divampa un fuoco freddo che non saprà mai domare. L’ingresso tra le file degli squadristi è una conseguenza quasi naturale. Nonostante il soprannome che gli hanno affibbiato per il suo viso da fanciullo, «Bambino», Mattia ostenta una ferocia da boia. Ma prima ancora dell’ideologia, prima della violenza e della brutalità antislava, il motivo per cui indossa la camicia nera e batte palmo a palmo le terre contese è la speranza di ritrovare quella madre senza nome né volto. La ricerca di una donna che non ha mai conosciuto diventa il senso di tutto. Suo padre, un vecchio orologiaio sicuro che le persone si possano riparare come gli ingranaggi, è l’unico a conoscere la verità ma la tiene sigillata in un silenzio blindato quanto una cassaforte. Nella frontiera d’Italia più dilaniata, la vita di Bambino scivola su un piano inclinato: ogni giorno una nuova spedizione, un nuovo assalto, una nuova rapina. E poi, tutto d’un fiato, lo scoppio della guerra, i nazisti in città, l’occupazione jugoslava di Trieste, le foibe. Un’esistenza vissuta da cane sciolto, scandita da un implacabile conto alla rovescia. Un romanzo palpitante in cui il giudizio – anche di fronte alle azioni più estreme – è sempre fuori scena. Con una scrittura trascinante e tagliente, Marco Balzano torna a indagare il rapporto tra individuo e collettività, tra le scelte personali e i grandi rivolgimenti della Storia. «La vita è aggredire o difendere, distruggere o prendersi cura».
Avevo già letto Resto qui e confermo la mia ammirazione per la scrittura di Balzano. Se nel precedente aveva saputo suscitare in me una forte empatia, con questo libro mi ha fatto provare una enorme antipatia per il suo protagonista. La storia si svolge tra Trieste e l’Istria al tempo della tentata italianizzazione da parte del governo fascista.

«Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata», Bambino si racconta con crudezza ed estrema sincerità, senza farsi sconti. Si unisce agli squadristi, usando come alibi la ricerca della madre, e arriva a dire che la violenza degli squadristi era diventata la violenza dello stato, in una sorta di deresponsabilizzazione non accettabile. Bambino è la camicia nera più spietata della città.
Il suo agire andava dal regolare i conti sospesi di chi gli faceva le soffiate giuste fino al perseguitare i preti che si “ostinavano” a dire messa e confessare in sloveno. Ne esce il ritratto di un personaggio di una tale miseria di valori che non riesce a risultare minimamente simpatico né quando “pensa” di essersi innamorato né quando mostra affetto verso la mula Lucia in dotazione alla sua squadra durante la guerra. Se qualcosa di lui mi ha colpita favorevolmente è la descrizione che fa, raccontando del suo periodo da soldato, degli albanesi. Quel popolo, sulla carta almeno, era alleato e loro speravano di ricevere aiuti alimentari ma…
“…quelle facce legnose erano povere, più sporche e scure di quelle slovene. Una fame atavica e una diffidenza pronta a farsi rabbia le segnava. Quando ci scorgevano rientravano nei loro tuguri e sbarravano le porte”.
Ma il racconto non gronda emozione, è solo una constatazione, come se in lui non ci fosse già più nulla di vivo e palpitante. E non sono riuscita a credere che la causa di tutto ciò fosse il non sapere la verità su quanto Telia gli aveva detto in punto di morte.

Tutt’altra emozione ho invece provato per il padre di Bambino, un gran lavoratore che non approva per niente le scelte di vita del figlio ma pur tuttavia non chiude mai la porta di casa, o del cuore, per escluderlo. Lo proteggerà, anzi, fino alla fine ma non gli svelerà mai il segreto che lo tormenta.
Aveva fatto di tutto per trasmettere al figlio gli strumenti e le conoscenze per costruirsi un mestiere ma al lavoro onesto ha preferito sempre mettersi al servizio di chi stava al potere. Nemmeno dalla guerra era tornato cambiato. Seppur avesse capito di essere caduto nell’illusione che…
“…essere fascisti volesse dire spadroneggiare e fare la bella vita…”
E invece era stato mandato a morire in un posto sperduto in mezzo al fango, dove nessuno avrebbe ritrovato mai il suo corpo. O almeno questo era quel che aveva pensato. Ma anche un altro pensiero era uscito dalla sua testa in quei terribili momenti. E cioè che “era ridicolo credere che dietro quel cielo ostile un dio pensasse al nostro bene”.
Dalla guerra torna vivo e con l’opportunità di cambiare, ma Bambino è un bastardo e la strada più facile è scegliere il nuovo padrone. Sa di essere in pericolo perché
“Gli sloveni e i croati bruciavano qualunque cosa: nelle loro terre non doveva rimanere traccia del passaggio degli italiani e nemmeno degli italiani stessi”.
Italiano per loro corrispondeva a fascista e Bambino era stato il peggiore dei fascisti. Eppure resterà lì a costo di cadere nelle loro mani giustificandosi così:
“Cadere in quella trappola non era stupidità: era la prova che anch’io sapevo amare. Che non ero un bambino”.
Io però non ho provato simpatia per lui nemmeno in quel momento. Credo che lui abbia tenuto il comportamento che ha tenuto non perché sapeva amare ma perché era l’unico che sapeva agire.

Assegno quattro stelle a questo testo che ho trovato davvero ben scritto e vi invito a leggerlo perché offre uno spaccato crudo ma interessante della situazione del confine orientale tra le due guerre.

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1 commento:

  1. Ciao, anche io ho letto e apprezzato "Resto qui" e di certo leggerò anche questo nuovo romanzo, che mi incuriosisce parecchio!

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