mercoledì 10 gennaio 2024

Recensione - "La resistenza delle donne" di Benedetta Tobagi

Titolo:
La resistenza delle donne
Autore: Benedetta Tobagi
Genere: Saggio storico
Pagine: 376
Editore: Einaudi
Data di uscita: 25 ottobre 2022

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Le donne furono protagoniste della Resistenza: prestando assistenza, combattendo in prima persona, rischiando la vita. Una «metà della Storia» a lungo silenziata a cui Benedetta Tobagi ridà voce e volto, a partire dalle fotografie raccolte in decine di archivi. Ne viene fuori un inedito album di famiglia della Repubblica, in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne. "La Resistenza delle donne" è dedicato «A tutte le antenate»: se fosse una mappa, alla fine ci sarebbe un grosso «Voi siete qui». Insieme alle domande: E tu, ora, cosa farai? Come raccoglierai questa eredità? La storia delle donne italiane ha nella Resistenza e nell'esperienza della guerra partigiana uno dei suoi punti nodali, forse il più importante. Benedetta Tobagi la ricostruisce facendo ricorso a tutti i suoi talenti: quello di storica, di intellettuale civile, di scrittrice. "La Resistenza delle donne" è prima di tutto un libro di storie, di traiettorie esistenziali, di tragedie, di speranze e rinascite, di vite. Da quella della «brava moglie» che decide di imbracciare le armi per affermare un'identità che vada oltre le etichette, alla ragazza che cerca (e trova) il riscatto da un'esistenza di miseria e violenza, da chi nell'aiuto ai combattenti vive una sorta di inedita maternità, a chi nella guerra cerca vendetta e chi invece si sente impegnata in una «guerra alla guerra», dalle studentesse che si imbarcano in una grande avventura (inclusa un'inedita libertà nel vivere il proprio corpo e a volte persino il sesso), alle lavoratrici per cui la lotta al fascismo è la naturale prosecuzione della lotta di classe. Tobagi racconta queste storie facendo parlare le fotografie che ha incontrato in decine di archivi storici. Ne viene fuori quasi un album di famiglia della Repubblica, ma in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne. Un libro che possiede il rigore della ricostruzione storica, ma anche una straordinaria passione civile che fa muovere le vicende raccontate sullo sfondo dei problemi di oggi: qual è il ruolo delle donne, come affermare la propria identità in una società patriarcale, qual è l'intersezione tra libertà politiche, di classe e di genere, qual è il rapporto tra resistenza civile e armata, tra la scelta, o la necessità, di combattere e il desiderio di pace?
È un libro che parte piano. Mi sembrava addirittura troppo dispersivo perché toccava appena argomenti importanti per poi tornarci più avanti. Invece proseguendo nella lettura ci si rende conto che Tobagi ha solo preso il discorso da lontano per far arrivare il lettore a comprendere il contesto e il come e perché le donne sono diventate parte attiva della resistenza.
Inizia parlando della Resistenza civile delle donne riassumendola con il termine “maternage” per indicare come le donne si prendessero cura di chi aveva bisogno, spesso senza guardare il colore della divisa o i rischi che potevano correre.

Ogni capitolo affronta un aspetto della vita delle donne partigiane e introduce al successivo. Sono stati anni di grandi cambiamenti per le donne. Il loro ruolo tradizionale veniva messo in discussione sia da quelle che sceglievano di unirsi alle brigate per fare le staffette (che se lo stesso incarico veniva invece svolto da un uomo questo veniva definito ufficiale di collegamento) sia da quelle che rimaste a casa col marito o il padre in guerra, si trovavano a dover svolgere i lavori tradizionalmente considerati maschili. Tobagi dedica un capitolo alla necessità, ben raccontata anche da Virginia Woolf, di uccidere l’Angelo del focolare per poter affrontare questi nuovi ruoli. Le donne di quegli anni, inoltre, non dovevano combattere solo la mentalità fascista e dei benpensanti ma anche quella degli stessi combattenti partigiani. Sul periodico Stella Tricolore delle brigate Garibaldi delle Langhe uscì un articolo l’8 aprile 1945 che così recitava:
“Hanno lasciato la loro tranquilla vita famigliare per venire con noi e affrontare tutti i rischi della vita partigiana. Sono giovani vite che non hanno ancora, o non avranno mai, l’energia per impugnare un’arma anche se hanno un cuore tanto forte come quello del più vecchio partigiano.”
E invece le armi le impugnarono eccome, e pure gli esplosivi rendendosi protagonisti di attentati che era impensabile attribuire a una donna tanto che, piuttosto, si tendeva a credere che fosse stato un uomo vestito da donna.
Molto interessante il capitolo in cui l’autrice parla del ruolo delle donne nei conflitti di vari paesi citando il film documentario I am the Revolution della regista e inviata di guerra Benedetta Argentieri in cui si racconta che “dove c’è guerra e grave arretratezza sociale le donne sono portatrici di istanze e trasformazioni radicali, con le armi o senza”. Tobagi ci tiene a specificare, però che “La Resistenza è una guerra differente, perché vuole respingere un invasore straniero, perché vuole contrastare la ferocia nazifascista, perché è tutt’uno con la battaglia per un futuro diverso e l’emancipazione personale”. Ecco perché fare la calza per l’esercito e farla per i partigiani sono due cose diverse.
Tobagi chiude il capitolo con parole che ho trovato assolutamente ispirate:
“…il caleidoscopio d’esperienze della Resistenza delle donne è un serbatoio di ispirazioni e modelli possibili. Nel fuoco delle crisi più terribili, refrattarie al ruolo di vittime come le antenate partigiane, le donne continuano a cimentarsi in ogni compito che la situazione richieda, a cominciare da quello più antico di tutti”.
Particolarmente duro ho trovato il capitolo dedicato agli stupri che le partigiane hanno subito e dei quali sembrava non volessero parlare. Per decenni su questo argomento non sarà detto nulla. Ricordiamo che in Italia lo stupro fino al 1996 è delitto contro la morale e non contro la persona.  Dopo sentenze che recitavano:
“Non integrano sevizie particolarmente efferate la depilazione dei genitali di una partigiana e la violenza carnale compiuta sulla stessa” e ancora quella che assolve il “capitano delle brigate nere che dopo aver sottoposta una partigiana ad interrogatori estenuanti l’abbandonò, in segno di sfregio, al ludibrio dei brigatisti che la possedettero, bendata, uno dopo l’altro”, non c’è da meravigliarsi che le donne preferissero non parlare piuttosto di affrontare il coro dei “se l’è cercata”.
“Altre volte tacciono perché il trauma è un demone muto. Non ci sono parole per dirlo. E poi, finché non lo dicono, lo stupro non diventa reale”.
Le storie che l’autrice raccoglie in questo capitolo sono davvero molto dure e permettono di capire il grande sacrificio compiuto dalle donne.
Un altro momento importante è presentato dal messaggio inviato dal generale britannico Harold Alexander, comandante delle truppe alleate nel Mediterraneo il 13 novembre 1944 alle brigate partigiane e che si può riassumere in tre parole: Complimenti e arrangiatevi. Annuncia, infatti, che durante i mesi invernali saranno sospesi i lanci di armi e alimenti e invita i partigiani a rientrare nelle loro case. Molti di loro, però, non potevano tornare perché rischiavano di essere catturati ed erano costretti a continuare a vivere allo sbando.
“La disperata penuria di cibo porta alla ribalta una faccia del protagonismo femminile simmetrica e opposta a quella delle partigiane: la figura della borsara nera. Tipicamente –un’abbondante massaia, con sacchi e sporte rigurgitanti- scrive Ida D’Este…le borsaneriste furono l’avanguardia inconsapevole (e impresentabile) di una emancipazione femminile tutta nel segno dell’individualismo e della lotta per la sopravvivenza in nome dell’inossidabile principio italico del Tengo famiglia mescolato ad ambizioni personali che finalmente trovano sfogo”.
Questa situazione permette alle partigiane che hanno scelto la lotta antifascista di brillare ancora di più nel cercare di incanalare la fame che pativano in iniziative di significato politico.
La resistenza partigiana è durata circa venti mesi durante i quali le emozioni sono state trattenute per la tensione costante delle azioni da portare a compimento. Proprio per questo motivo Tobagi intitola un capitolo “La tristezza della liberazione”.
Quando finalmente ci si può rilassare tornano alla mente i compagni che si sono persi lungo il percorso, gli stupri e le torture subite, la fame, il freddo, la paura la sofferenza per i tradimenti subiti per le delusioni e, non ultima, per la violenza che si è agita e che si vorrebbe non ricordare mai più.
Per le donne, in particolare, c’è la consapevolezza che si è concluso un tempo irripetibile nel quale avevano potuto uscire dal ruolo tradizionalmente loro imposto. Immediatamente si trovarono ricacciate entro i confini angusti di camera e cucina. Il primo segno fu il divieto loro imposto di partecipare alle sfilate a fianco dei partigiani loro compagni di lotta. Le poche che vollero a tutti i costi sfilare furono coperte dagli insulti della folla già dimentica delle loro azioni. Anche i “compagni” temevano che ricadesse su di loro il pregiudizio sull’immoralità delle donne che si erano unite alle bande.
“Le partigiane hanno fatto il callo alla malignità dei bigotti, hanno imparato a tener testa ai loro stessi compagni, ma fa davvero male quando alle voci scandalizzate si aggiunge il fuoco amico”.
E così tornarono nelle loro case in silenzio. Spesso sono loro stesse a non dare valore al loro operato: “Io non ho fatto niente” rispondono a chi vorrebbe farle parlare delle loro azioni.
“Da una parte sono impregnate fino al midollo di quel famoso modello educativo per cui la donna deve essere modesta, mansueta e tenuta al sacrificio e al dono di sé…se hanno scelto la Resistenza in un anelito di riscatto personale…è come se non potessero dirlo più…”
A spiegare bene quel che stava succedendo alle donne con la fine della guerra sono le parole di Ada Gobetti:
“Confusamente intuivo che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire…e si trattava di combattere tra di noi e dentro noi stessi…”
Diciannove sono le donne che vengono decorate con la medaglia d’oro per il loro contributo alla Resistenza, di cui solo quattro viventi. Per le istituzioni la partigiana migliore è quella morta. E questo mi ha fatto pensare alle donne che oggi denunciano di aver subito violenza. Per essere credute devono avere ben evidenti i segni delle botte.
Questo libro permette di conoscere una generazione di donne che ha vissuto un periodo terribile della storia d’Italia con coraggio e umiltà, pagando a caro prezzo la loro battaglia. Hanno combattuto a fianco degli uomini ma per loro ci sono stati solo gli oneri e non gli onori e quando anni dopo si sentivano chiedere di raccontare quei giorni spesso dicevano “Erano gli uomini gli eroi, noi facevamo poco…”
Credo che sia un testo da leggere a scuola per far conoscere i valori da difendere e il valore troppo spesso non riconosciuto delle donne.
L’autrice ha dimostrato di conoscere molto bene l’argomento trattato e quindi ne parla con competenza e completezza rendendolo fruibile e accattivante anche per chi non ne fosse ancora informato.
Assegno cinque belle stelle perché è scritto molto bene, suddiviso in capitoli brevi ma concatenati che trattengono il lettore avvolgendolo in una storia che, purtroppo, sembra essere destinata a ripetersi. Buona lettura.

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