lunedì 11 dicembre 2023

Recensione - "Un dettaglio minore" di Adania Shibli

Titolo:
Un dettaglio minore
Autore: Adania Shibli
Genere: Narrativa
Pagine: 86
Editore: La nave di Teseo
Data di uscita: 15 aprile 2021

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Questa storia inizia durante l’estate del 1949, un anno dopo la guerra che i palestinesi chiamano Nakba, la catastrofe – che ebbe come conseguenza l’esodo e all’espulsione di oltre 700.000 persone – e che gli israeliani celebrano come la Guerra d’indipendenza. Alcuni soldati israeliani attaccano un gruppo di beduini nel deserto del Negev, uccidendo tutti tranne un’adolescente. La ragazza viene catturata, stuprata, uccisa e sepolta nella sabbia. Molti anni dopo, ai giorni nostri, una donna di Ramallah prova a decifrare alcuni dettagli che aleggiano attorno a quell’omicidio. È colpita da quel delitto a tal punto da trasformarlo in un’ossessione, non solo a causa dell’efferatezza del crimine, ma perché è stato commesso esattamente venticinque anni prima il giorno in cui è nata.
Adania Shibli sviluppa magistralmente due narrazioni che si sovrappongono e, in trasparenza, evocano un presente che non può prescindere da ciò che è stato. Con una prosa tagliente e inquietante, Un dettaglio minore va al cuore di un’esistenza segnata dall’annullamento e dalla privazione di sé, com’è la vita nella Palestina occupata, rivelandoci quanto sia ancora difficile riunire i frammenti di una narrazione rimasta troppo a lungo nascosta nelle pieghe della storia.

Non è il classico romanzetto da un centinaio di pagine che ti allieta una serata solitaria. Decisamente non lo è. La prima parte narra di un campo militare israeliano il cui capo mi ha ricordato Terminator e così lo chiamerò da qui in avanti. Un uomo privo di ogni emozione. Concentrato a portare a termine la missione che gli è stata assegnata. Scorrendo le pagine si sente il caldo che brucia la sabbia delle dune e i piedi affondare nella sabbia. Per non parlare dei colori dal deserto al tramonto. Tutto questo è dipinto a tinte forti e, davvero bastano poche pagine per avere la sensazione di essere in quel campo. 

Come dicevo è un uomo con un compito da svolgere e niente lo può fermare, né il caldo né il dolore. La missione è stanare gli ultimi arabi che abitano la zona e lui lo fa con perizia, senza fare prigionieri. Tranne una. Una ragazza spaventata, sporca, che puzza come i dromedari che hanno fatto la stessa fine degli uomini con cui viaggiava. Spogliarla e lavarla davanti ai suoi uomini è una cosa che gli sembra normale, mentre il suo cane abbaia nel tentativo di difenderla. A me è venuto spontaneo il paragone con il popolo palestinese scacciato dalla sua terra per far posto al popolo israeliano che con le conoscenze e le tecnologie che possiede può trasformare il deserto in un giardino. Vero. Ma i beduini vivevano spostandosi da un’oasi all’altra da sempre. Avevano i loro usi e costumi e, forse, gli stava bene così. Terminator sarà il primo a stuprare la ragazza e il modo in cui l’autrice descrive la scena è quanto di più asettico si possa immaginare. Non una parola di troppo. Non un dettaglio minore. Il minimo che serve a mostrare quel che sta succedendo, nonostante la puzza che ancora emanata dalla ragazza sia forte tanto da costringerlo, dopo, a lasciare la porta aperta. Quel che segue è quanto basta a schifare il lettore, ma sempre senza una parola di troppo.

Di punto in bianco cambia l’immagine. Non siamo più nel deserto ma nella città palestinese di Ramallah. La protagonista ora è una donna araba nata esattamente 25 anni dopo l’uccisione della ragazza nel deserto. Deserto che ora si intravede in lontananza e da là arriva continuo l’abbaiare di un cane. Quello che ora è dipinto a tinte forti è la sensazione di insicurezza e di instabilità. I posti di blocco spuntano come funghi e anche raggiungere il posto di lavoro può costituire un'impresa notevole. La normalità del fucile puntato al petto e delle esplosioni nei palazzi vicini. La corsa ad aprire le finestre per evitare che esplodano i vetri. La paura! La paura trasuda da ogni riga, come nella prima parte facevano il caldo e l’arroganza.

Lei non è coraggiosa e non è nemmeno una stratega eppure il coraggio se lo fa venire nel tentativo di dare voce a chi non ha mai potuto raccontare come sono andate le cose.
Il viaggio in auto con lei non sarà tranquillo per niente e nonostante i tanti chilometri percorsi la paura sarà sempre nel sedile posteriore. “Bellissimo” il fatto che viaggia servendosi di diverse mappe, una araba più datata e una israeliana più recente sulla quale molti villaggi non esistono più. È incredibile come il confronto tra le due racconti moltissimo degli ultimi cinquant’anni di quei posti. È allucinante come saranno delle stupide gomme da masticare, che lei nemmeno voleva comprare, che decideranno il finale di questo libro. Un finale che non mi aspettavo. Un finale per il quale non c’erano indizi.

O forse sì. Forse era tutto un grandissimo indizio.

Anche se quella frase riportata in entrambi i capitoli:

“Non vincerà il cannone, vincerà l’uomo”, mi aveva tratta in inganno.

Il libro è scritto molto bene e, se le prime pagine fanno un po’ fatica a scorrere, forse per la mancanza di emotività espressa, poi i colori del deserto ti catturano e ti trascinano fino all’ultima pagina. E niente, mi devo ancora riprendere. Vi consiglio caldamente di leggere questo romanzo ricordando sempre che Terminator e i suoi soldati non sono tutto il popolo israeliano e i pacifici beduini del deserto non sono tutto il popolo palestinese. Leggetelo per quello che è: un breve romanzo che vi farà vivere luoghi ed emozioni. Per come li ha fatti vivere a me io assegno cinque stelle e vi auguro buona lettura.


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